sabato 11 agosto 2012

Nelle steppe del Kazakistan

Siccome non c'è wifi nel deserto del Kazakistan, ecco in un solo post, il resoconto delle ultime tre giornate di cammello!

Una notte nella steppa


Credevamo di avercela quasi fatta. Ed invece quello sterrato, proprio quando mancavano meno di 80 chilometri alla città di Aral, ci ha messo col sedere per terra. Sia pure a malincuore, abbiamo dovuto dire addio alla comodità di un letto d’albergo per montare alla bell’e meglio un accampamento nella steppa. Era notte inoltrata e la nostra Ford rischiava di insabbiarsi o di finire in una delle tante ed improvvise buche che sono una costante dei sentieri kasaki. La giornata non era cominciata bene, ad Aqtobe. Tanto per cambiare, abbiamo dovuto cercare un altro gommista. Le ruote anteriori se ne erano andate un’altra volta e quelle posteriori erano ben intenzionate a seguirle. Così, grazie ancora alla disponibilità della gente che ci accompagna sempre volentieri, siamo andati in un’altra officina. Stavolta abbiamo cambiato tutte e quattro le ruote. I gommisti, gentilissimi, hanno perso la mattinata a sistemarci la convergenza e cercare di risolvere il problema dello sterzo che causa (crediamo) lo spropositato consumo delle gomme. Alla fine dei lavori, il gommista - informato sulla nostra destinazione - ci ha donato un portafortuna kasako: una specie di braccialetto di pelle. Come per dire “io quello che potevo l’ho fatto. Per il resto... vi auguro tanta fortuna”. Così combinati abbiamo girato la “prua” della Gengis in direzione del deserto kasako. Un inferno di caldo, sabbia e vento. Pure i cammelli che abbiamo incrociato per strada sembravano stupiti di vederci là. In questo Paese più grande dell’intera Europa, le città - la cui forma delle case sembrano ricordare le yurte, le tende dei nomadi, e rimpiangere i tempi in cui cavalcavano liberi per la steppa - sono isole in un oceano di deserto. Le distanze qui si misurano tra i 500, i 600 o più chilometri di niente.
Davvero, non ce l’abbiamo fatta a raggiungere Aral. Ci siamo consumati gli occhi nel cercare di vederne le luci, in fondo quell’orizzonte che si scuriva sempre di più. Niente. Neppure un miraggio. E avanti non si può più andare. Per fortuna abbiamo le tende. Adesso cerchiamo un posto adatto e andiamo ad accamparci nella steppa. Qui non c’è rete neppure per il telefono cellulare. Posterò questo scritto non appena raggiungeremo un internet point.


Una volta c’era un lago

Alle sei siamo già in piedi. In mezzo al deserto kasako, il sole pare sorgere prima che nel resto del mondo (quello civile). Per fortuna ho il mio caffè zapatista - quello che l’associazione Ya Basta importa direttamente dai liberi caracoles del Chiapas - che ci tira un po’ su di morale! Montiamo immediatamente sulla Gengis. Con la velocità cui ci tocca procedere, bisogna spicciarsi se vogliamo arrivare a Dushanbe non troppo oltre la fine del rally! La prima tappa è Aral, la città sul lago che non c’è più. Qui un piano di “sviluppo economico” sovietico ha causato uno dei più grandi disastri ecologici dell’umanità. I fiumi che portavano l’acqua al lago sono stati deviati per permettere l’irrigazione di piantagioni di cotone. Un investimento assurdo, fallito dopo poche decine di anni. Ma il risultato di questo tragico tentativo di cambiare l’ecosistema ad esclusivo vantaggio di un capitalismo di Stato per niente dissimile da quell’economia predatoria che detta legge a casa nostra, sono ora sotto i nostri occhi. Aral è una città fantasma. Una città di case abbandonate e di strade devastate dall’incuria. Nella grande piazza dove un tempo brulicava il mercato del pesce più grande di tutte le Russie, oggi ci sono solo due banchetti con poche casse di pesce agonizzante. La ferrovia sulla quale sbuffavano le locomotive che trainavano lunghi convogli di merci, oggi è un binario morto.
L’economia del disastro ha ammazzato una intera città e i suoi abitanti che un tempo vivevano solo di pesca. Inutile cercare traccia del lago. I grandi moli sono affondati nella sabbia. Le grandi gru che un tempo tiravano a secco i pescherecci per il rimessaggio ora guardano il nulla.
Lasciamo Aral con un nodo in gola. Cercheremo di raggiungere - tra un insabbiamento e l’altro - Qyizylorda e magari dormire in un albergo. Ipotesi che non ci dispiace affatto. La steppa sarà anche romantica ma una notte ci basta e ci avanza.
Ma è solo una pia illusione. Ancora, a 120 chilometri dalla nostra meta, poco dopo essere passati per la base da dove Yuri Gagarin fu lanciato per il suo fantastico viaggio attorno alla Terra, ci dobbiamo arrendere alla steppa. Stavolta però una speranza di dormire in un posto civile ce l’abbiamo ancora. Qui vicino si trova un piccolo villaggio chiamato - tenetevi forte! - III Internacional (in spagnolo!). Lo raggiungiamo speranzosi non certo di un albergo ma contando sull’ospitalità kasaka. E questa non ci delude. Dopo aver spiegato a gesti la nostra situazione, un gentilissimo signore si fa accompagnare a casa sua. Ne esce sorridendo e con un paio di chiavi in mano. Ci fa segno di seguirlo che ci porta in un posto dove possiamo sistemarci per la notte. Non riusciamo a credere alla nostra fortuna. Ma è un’altra illusione. Arriva sgommando la macchina della polizia locale e ne esce uno sbirro con il manganello in mano e e un muso da incazzato di mestiere. Documenti, patenti e libretto della macchina. E’ tutto in regola ma lo stesso non ci vuole nel suo villaggio. La zona è vietata agli stranieri, ci fa capire. Il gentile signore che ci voleva offrire ospitalità cerca di prendere le nostre difese ma si vede che ha paura dello sbirro. Non c’è nulla da fare. Mister Gentilezza ci ordina di seguirlo e ci scorta fuori da villaggio. Ci fa fermare proprio sotto il cartello con scritto “III Internacional”. Qyzylorda, ci fa segno, è in quella direzione. Andate. In quella direzione ci sono 120 chilometri di sabbia e sterrato. Che speranza abbiamo di raggiungere la città di notte fonda? Gli chiedo se sa cosa significhi l’acronimo Acab. Non lo sa. Ci rimettiamo in marcia sperando che il signore gentile non abbia spiacevoli conseguenze per aver avuto la balzana idea di aiutare dei viaggiatori persi in mezzo al deserto.
(Una osservazione. Siamo stati ufficialmente cacciati dalla Terza Internazionale! Dobbiamo dare una lettura politica a tutto questo?)
Fatto sta che anche oggi si dorme nella steppa. Piantiamo il campo assieme ad alcuni camionisti e a diversi milioni di zanzare affamate del nostro sangue. Siamo a digiuno dalla mattina ma nessuno ha voglia di mettere su la pignatta per un risotto liofilizzato d’emergenza. Proviamo a dormire perlomeno un po’. E’ dura, dura.


Il grande mausoleo di Kozha Akhmed Yasaui

Ancora, alle sei della mattina siamo già in macchina. Ancora scendiamo verso sud, verso il confine con l’Uzbekistan, cercando di tirarci fuori da questo deserto dove anche i cammelli hanno le gobbe sgonfie dalla sete. Raggiunta e superata Qyzylorda, dopo aver pagato 20 dollari di multa/tangente ad un paio di sbirri secondo i quali viaggiavamo con i fari spenti, facciamo rotta per Turkistan dove si trova il più grande mausoleo del Kasakistan e poi, finalmente, uscire dal deserto e pernottare nella città di Shynkent, dove la guida dice solo di non arrivarci in questa stagione se non si vuole finire divorati vivi da orde di sanguinare zanzare. Andiamo bene!
Il mausoleo dedicato a Kozha Akhmed Yasaui è una imponente costruzione circondata da alte mura che domina tutta la città. Facciamo sosta per sgranchire un po’ le gambe e per fare rifornimento di acqua e benzina. Sempre secondo la nostra guida, l’edificio è un luogo di culto e di pellegrinaggio. Non ne dà l’impressione, a dire il vero. Sì e no ci sarà una decina di fedeli in tutto e la maggioranza sembra di provenienza più turca (dove il santo è molto venerato) che locale. L’impressione che mi hanno dato i kasaki non è esattamente quella di gente molto dedita alla religione. Siamo in ramadan ma non ce ne accorgiamo nemmeno. I pochi muezzin che cantano nelle ore della preghiera lo fanno nell’indifferenza generale e la birra scorre a fiumi a tutte le ore del giorno. Non mi stupirei se, in quelle loro case loro case di fango che sembrano tende, la gente del kasakistan conservasse ancora le reliquie di quei dei guerrieri che adoravano ai tempi in cui cavalcavano dietro i Khan dell’Orda d’Oro.
Raggiungiamo Shymkent che non è neppure tanto tardi nonostante il fuso orario ci abbia portato avanti di un’altra ora. Stavolta si dorme in un letto vero, grazie a dio.
Ci attende però una sorpresa alla reception dell’albergo. Il nostro visto di ingresso, ci informano, è scaduto ieri. Dobbiamo andare alla polizia a farcelo prorogare. Siccome sabato e pure domani, domenica, gli uffici sono chiusi siamo ufficialmente... “clandestini”, per dirla con i media italiani! Evviva, evviva! In Kasakistan, invece, dove i giornalisti sono più civili, meno venduti e sempre attenti alla verità dei fatti, preferiscono il termine “irregolari”. Quasi quasi mi fermo a lavorare qui...

4 commenti:

  1. Bentornati ragazzi! Il vostro silenzio mi ha preoccupato. Ho pensato ad un altra notte nella cella del cimitero ortodosso. Ma dopo quanto tempo di silenzio posso dare l'allarme?
    Comunque avanti tutta!!!
    Sandro

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  2. tanta sabbia deserto orizzonti a nn finire ma le facce della gente dove sono o sono morti tutti. mandatemi un bel viso rugoso. il prossimo viaggio a scopo benefico a f r i c a o p a k i s t a n mi portateeeeeeeee''VI PENSO ECC. ECC. BESOS X 5

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  3. bentornati ragazzi!!!!!!!
    siamo felici di risentirvi!
    iniziavate a mancarci ..... siete l'appuntamento giornaliero che dona una sferzata di movimento alla piatta vita del verbano cusio ossola!!!!!

    coraggio!
    le4M!

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  4. Vi porto nei miei pensieri.... Assieme al ricordo del rosolio alla cannella
    Che avventure. Che coraggio. Che spirito.
    Mi state facendo vivere un sogno che per voi a volte e' piu' un incubo.
    Forza gengis. Ci siete. Daidaidai.

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