lunedì 6 agosto 2012

Sulle strade del Kazakistan


Sulla cartina geografica l’hanno segnata col colore rosso. Il che significa che viene considerata una delle strade migliori del Paese. Parlo di quei fetentissimi 350 chilometri di buche in mezzo al niente che vanno dal confine con la Russia ad Atyrau e che costeggia tutto il mar Caspio senza che peraltro si riesca mai a vederlo, o anche solo ad intuirlo, questo mare che non è un mare. Nei prossimi giorni, ci inoltreremo ancora più ad est, dove gli stessi camionisti kazaki ai quali abbiamo fatto vedere la mappa col nostro percorso, ci hanno messo in guardia con una smorfia significativa. Come per dire che là sì che le strade sono davvero brutte!
Che vi devo dire? Dushanbe è ad est, ad est noi dobbiamo andare e ci andremo. La Gengis continua ad accusare qualche magagna. Dopo la marmitta e le ruote anteriori, se ne sta andando pure lo sterzo. Abbiamo provato ad invertire le ruote e a cambiarne una con la nostra ruota di scorta ma non è servito a niente. Ogni tanto l’auto sbanda pericolosamente. Impossibile superare i 60 km all’ora, in queste condizioni. Domani proveremo a sentire un meccanico. Ma intanto siamo riusciti, anche in queste condizioni, a superare la frontiera russa e ad entrare in Kazakistan. Due ore e mezza di dogana. Neanche male per questi posti. Nelle attese, abbiamo fatto amicizia con un team di ragazzi indiani impegnati nel Mongol Rally, da Londra a Ulan Bator. Tipi tosti. Ci hanno messo in guardia dall’entrare nel Pamir, dove si stanno verificando scontri tra polizia e narcotrafficanti. Scontri che a queste latitudini assumono i contorni di una vera e propria guerra. Noi comunque dovremmo passare a nord della zona a rischio. Vedremo. Un problema alla volta.

Appena dopo la frontiera, davanti a noi si è aperto l’immenso Kazakistan. Spazi sconfinati e liberi a perdita d’occhio dove gli unici esseri viventi sono puledri allo stato brado, mandrie di mucche e soprattutto centinaia di cammelli. Un mondo piatto senza neppure il conforto di un albero per regalarti un po’ d’ombra. Verde all’inizio, ma che si tramuta ben presto in un deserto man mano che procediamo verso est. Il caldo asfissiante (la Gengis è senza aria condizionata) è peggiorato dal vento afoso che, invece di portare refrigerio dai finestrini abbassati, pare un phon acceso che ti toglie il fiato. E’ dura. A parte qualche camionista di passaggio, per chilometri e chilometri non abbiamo incontrato anima viva. Non un distributore, non un posto qualsiasi dove fare rifornimento d’acqua potabile.
Lungo la strada, l’unica traccia di presenze umane, erano i cimiteri. Tanti, enormi, disseminati lungo tutta la strada. Pare incredibile che in un luogo così deserto possa essere morta tanta gente. Ogni tomba è un castello circondato da mura alte come un uomo o anche più. In cima la mezzaluna islamica o qualche bandiera sbiadita dal tempo e dal vento del deserto. L’unica costruzione in muratura che un nomade poteva concepire: quella definitiva.
Arriviamo ad Atyrau che sono le nove di sera. La città, uno delle capitali dell’industria petrolifera mondiale, si fa precedere dalla sua puzza. Depositi di immondizie e discariche di auto arrugginite. Brutti grattacieli, grandi piazze che nella loro struttura sembrano riecheggiare i cimiteri che abbiamo incontrato per la strada. Dal deserto siamo ritornati alla civiltà. Ci chiediamo cosa sia meglio ma non troviamo la risposta.












2 commenti:

  1. Ciao ragazzi. avete pulito le candele??? A parte gli scherzi , buon proseguimento!!! Un abbracio da Marta e Luca.

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  2. SEMPRE PIU LONTANIIIIIIIIIIIIIIIIII BOTTAZZO FERMATI SEMPRE A CHIEDERE INFORMAZIONI SULLA STRADA NN VORREI MAI CHE VI PERDESTE SAREBBE UNA GRANDE PERDITA X MEEEEE UN ABBRACCIO ANCHE DA PARTE MIA E DAL PORRO

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